L’uso dell’intervista nella storia orale.
Questo è praticamente un intervento nel dibattito, dato che il quadro che ha dato Bermani copre molto bene il terreno, per cui io aggiungo solo alcune diramazioni del discorso.
La prima volta che ho sentito parlare di San Pacrazio fu ad Arezzo e poi a Civitella della Chiana, durante il convegno intitolato "In memory," su,lla memoria delle stragi naziste in Europa, nel 1994. Teniamo conto del momento storico: la destra aveva vinto le elezioni, e la sinistra era già convinta che le aveva vinte perché aveva ragione. Si attraversava una fase di grossa crisi di delegittimazione da parte degli intellettuali di sinistra, democratici, antifascisti. Quello che trovai sorprendente fu la sorpresa – anzi, lo scandalo epistemologico, per dirla con Pietro Clemente - con cui i miei colleghi storici e antropologi accoglievano la scoperta che la gente di Civitella anziché ai nazisti dava la colpa ai partigiani. Ne ero colpito perché racconti del genere li avevo sentiti per tutta la vita: quasi nessuno può essere stato esente dalla memoria antipartigiana, e in particolare il mio pensiero corse ai racconti assorbiti nell’aria sulla responsabilità dei partigiani per la strage delle FosseArdeatine a Roma, una storia che poi mi ha ossessionato da allora ad oggi.
Ora, il problema era a due livelli. Uno era la questione di che cosa è successo, come sono realmente andate le cose; e l’altra è che cosa si racconta. Questa è una distinzione metodologica senza la quale non lavoriamo; ma la dobbiamo comunque complicare un poco. In primo luogo, perché l’accesso che abbiamo a quello che è successo è comunque attraverso racconti, compresi quelli conservati nelle fonti scritte o d’archivio – che sono esse stesse ion larga misura narrative, con la sola differenza che sono per lo più scritte da persone che non conosciamo, mentre con le fonti orali siamo in presenza della fonte e la conosciamo personalmente. Ora, dobbiamo decidere se la scelta migliore è depurare le fonti dalla narratività per arrivare al nocciolo duro dei fatti, oppure approfittare dell’esistenza della narratività e trattarla come dato ulteriore, ulteriore fonte di interpretazione e conoscenza da cui trarre vantaggio.
Questa distinzione fra due modalità entrambe legittime a seconda del progetto o delle circostanze – non possiamo mai ragionare in termini normativi – distingue tendenzialmente due cose che chiamerei "uso delle fonti orali in storiografia" da un lato e, per brevità, "storia orale" dall’altro. Chiamo dunque storia orale una modalità che pone al centro gli aspetti specifici della comunicaziojne orale e mette al centro quel tipo di informazioni che l’oralità privilegia – sempre tenendo conto che anche fra orale e scritto non c’è mai una dicotomia secca ma un continuum che va verso polarità diverse. Chi abbia visto il casellario politico dell’archivio centrale dello stato sa che le relazioni dei brigadieri di polizia sui sorvegliati sono piene della soggettività dei loro estensori; chiunque abbia frequentato un poco Fioucault queste cose le sa. Però direi che la presenza della dimensione soggettiva della dimensione narrativa è molto più marcata e autorizzata nella narrazione orale di quanto non lo sia in una documentazione scritta che ha come obiettivo la fattualità mentre l’oralità contiene anche il fine dell’espressività.
Ora, il caso delle Fosse Ardeatine è quasi un modello scolastico. Io mi sono occupato di queste cose propriol in seguito alla scoperta dell’importanza dei racconti sbagliati. In questo caso, ho subito visto che c’erano due cose: una strage, e un racconto. Il racconto non è una mera rappresentazione degli eventi della storia; è esso stesso un evento della storia, è qualcosa che le persone fanno nel corso del tempo e che ha poi effetti sui comportamenti collettivi e personali. Ora, nel caso delle Ardeatine la materialità dei fatti è talmente chiara e accertata fin da subito dopo che nessuno storico ha mai ritenuto necessario occuparsene. Uno dei paradossi di questa vicenda è che siccome è troppo facile raccontare che è successo non c’è una ricerca storica approfondita in cui la cosa venga affrontata. E allora, siccome nessuno storico se ne è veramente occupato, il risultato è che circolano incontrollati i racconti falsi ,mimmaginari e leggendari, della narrazione di destra. E’ proprio un modello: la narrazione per cui alle Fosse Ardeatine la strage è stata fatta perché i partigiani non si sono presentati è una narrazione falsa ma egemonica, perché una storiografia attentasolo alla referenzialità dei fatti non si è degnata di contrastare i racconti. Non lo ha fatto perché ritiene che i racconti sbagliati vadano semplicemente dismessi ha finito per lasciargli tutto lo spazio, al punto che anche molti antifascisti lo prendono per vero. Su questo si costruisce quindi un immaginario politico che comporta poi conseguenze concrete.
Ora, dopo questa scoperta della memoria antipartigiana, io sono andato nella direzione di cui occuparmi dei racconti sbagliati; altri, per esempio Paolo Pezzino rispetto alla strage di Guardistallo è stata di cercare di vedere che cosa è successo esattamente. Ho l’impressione che Pezzino non sia arrivato a conclusioni certe, perché dopo aver esplorato al meglio delle possibilitàò che cosa è successo a Guardistallo, non è riuscito lo stesso ad avere alcun impatto sul conflitto etico e politico, ideologico e mitico, che è ancora in corso sul significato di quello che è successo e sulle responsabilità. Anzi, ho l’impressione che i racconti ideologici di Guardistallo abbiano influito su Pezzino molto pià di quanto lui ha influito su loro. Proprio perché un approccio di stampo positivista – assolutamente meritorio, perché adesso sappiamo su Guardistallo molto più di prima – rischia di essere indifesa, vulnerabile, di fronte all’immaginazione.
Questo però comporta che per capire che un racconto è immaginario, dobbiamo comunque cercare di capire che cosa è successo. Altrimenti rischiamo di commettere l’errore opposto a quello positivistico, e cioè l’errore di un decostruzionismo ingenuo: tutti i racconti si equivalgono, il mando materiale non esiste (il n’y a pas d’hors texte) e quindi tutti i testi vanno letti esclusivamente in termini delkla loro dinamica intratesuale. Naturalmente, questo è falso, anche proprio in termini di teoria letteraria e narratologica, perché uno dei termini su cui il testo si costituisce in quanto genere è proprio il patto che stabilisce rispetto alla sua maggiore o minore referenzialità: un’autobiografia si distingue da un romanzo perche, pur essendo entrambi racconti, l’autobiografia è tale perché afferma di essere veridica (non perché lo è, ma perché dice di esserlo) mentre il romanzo dichiara di essere fiction (e tale rimane anche se racconta fatti realmente accaduti). La distinzione è dunque il patto che il racconto istituisce col suo destinatario: per esempio, l’autobigorafia di Richard Wright, Ragazzo negro, non si dichiara tale perché pur narrando i fatti della propria vita poi ci fa alcune operazioni che appartengono all’immaginazione.
Quindi quando facciamo un’intervista, ci troviamo davanti a un evento – insisto che è un evento, perché lo creiamo noi: la storia che raccogliamo non esiste in natura ma è il prodotto di questo incontro – estremamente ibrido. Convivono contemporaneamente nella narrazione che raccogliamo con l’intervista – uso questa complicata parafrasi per non usare la parola "testimonianza" – l’intenzione del testimone di raccontare le cose come sono andate, istituendo un patto di referenzialità e parzialità; dall’altro, però coglie anche questa occasione quasi unica di parlare di sé, di rappresentarsi. Noi sappiamo quanto forte sia la necessità di autorappresentarsi, tanto pià in soggetti a cui è stata negata la possibilità di farlo in pubblico (ma anche in famiglia, perché i figli e nipoti non vogliono più starli a sentire…). C’è dunque una doppia esigenza di rappresentare e di rappresentarsi.
Faccio un esempio, in cui ci sono di mezzo io. Sto facendo una ricerca su alcune esperienze salesiane coi ragazzi di strada nel dopoguerra a Roma, e intervistando uno di loro viene fuori il nome di un altro salesiano che era stato mio professore di religione a Terni negli anni ’50. Glielo dico – è parte di una dimensione dialogica, in cui fai vedere che non sei del tutto estraneo al mondo del tuo interlocutore. E lui conferma: sì, questo prete raccontava le storie di quando i ragazzi del liceo liceo classico di Terni giocavano a pallone con la testa del crocifisso. E io – formo un attimo, quella era la mia classe. Ora, non è vero. Cioè, primo non è vero che giocassero a pallone con la testa del crocifisso: secondo una versione datami recentemente da un ex compagno di scuola, successe che il crocifisso fu colpito accidentalmente durante la ricreazione da una cinghia di quelle con cui si legavano i libri e mentre cadeva a terra qualcuno cercò di fermarlo col piede proprio mentre entrava in classe il prete (è una versione dubbia; d’altra parte, le fonti scritte giornalistiche e giudiziarie sostengono che al liceo di Terni esisteva un "club della bestemmia…"). Comunque, la cosa interessante non è la leggenda o l’errore suo, ma il mio: perché non è vero che era la mia classe, ma era la classe accanto.Perché ho detto che era la mia classe? Perché qualunque narratore vuole mettersi al centro del racconto, nel luogo dove accadeva l’evento storico. E’ la stessa reazione per cui a sentire i racconti si ha l’impressione che il 24 marzo del ’44 tutta la popolazione di Roma passava casualmente per via Rasella o ci passava un suo parente.
C’è dunque un bisogno di presenza nella storia. Perciò la famosa domanda "nonno che hai fatto in guerra" è veramente la domanda chiave della storia orale. E’ la domanda che dice: qual è il rapporto fra la tua biografia e la storia, fra la tua esperienza personale e privata e la vicenda collettiva che leggo nei libri di storia? Ci mettiamo a un capo della triangolazione fra storia e biografia. Anche per questo sono importanti i racconti di guerra, e per questo prende forma il reducismo – per cui eravamo tutti alla prima occupazione di lettere (io ho l’alibi, ero militare, ma c’erano tutti gli altri) e così via.
Ne deriva anche una modalità narrativa: la centralità del punto di vista. L’evento storico non è raccontato dall’alto ma da dentro. Faccio sempre l’esempio di questo ex partigiano ternano che racconta il giorno della dichiarazione di guerra: ci portarono, tutte le maestranze (e spiega: perché allora le chiamavano maestranza; c’è anche spesso una grande attenzione metalinguistica) nella piazza principale ad ascoltare il discorso di Mussolini. E, continua, c’è chi dice che hanno applaudito, dagli altoparlanti si sentiva che la gente a Roma applaudiva. Ma io, nelle facce3 intorno a me, vidi molta, molta preoccupazione. Quindi lui mette l’accento sul suo punto di vista: quello che vede stando dentro la piazza a livello del suolo, anziché quello che si sente dalgi altoparlanti in alto e quello che ha raccontato chi stava nel palazzo del governo lì sopra. Ti dice però anche la complessità dell’evento storico: c’era chi applaudiva e chi era preoccupato, c’era Roma e c’era Terni. E poi dà questa bellissima nota di iniziazione personale: fu allora, dice, che scoprii quello che chiama "la serietà operaia."
Ora, il punto di vista circoscritto è uno di quei procedimenti che in letteratura si suol dire che sono stati introdotti da Henry James, o da Conrad o Ford Madox Ford, ma che è impossibile estrarre dalla narrazione orale. Ecco quindi una triangolazione di generi (immaginario e referenziale), di dimensioni storiografiche (storia degli eventi e storia della memoria), di spazio sociale (dimensione pubblica e dimensione privata, le molte storie ufficiali e le molte memorie personali).
Faccio un altro esempio di questa triangolazione. In questi giorni si è ricordata a Roma la storia del bombardamento di San Lorenzo, il 19 luglio del 1943. A San Lorenzo c’era un monumento, un bene culturale della cultura popolare: una grande scritta sul muro di un palazzo bombardato, che diceva "eredità del fascismo". Io ero fierissimo di questa consapevolezza storia e politica, da parte delle vittime dei bombardamenti, rispetto alla responsabilità storica del fascismo. Poi c’è stato il Kosovo, le bombe su Belgrado. La Nsto era fermamente convinta che il popolo serbo avrebbe dato a Milosevic la colpa dei bombardamenti, e si sarebbe ribellato. Ora, a parte la questione della giustezza o meno di questa guerra, abbiamo visto che questo non è avvenuto che in parte: gran parte delle persone bombardate davano la colpa dei bombardamenti a chi li bombardava. In Italia, questo errore di percezione è stato sostenuto anche da una lettura schematica della memoria di quando siamo stati bombardati noi: semplificando, l’ideqa era che così come il popolo italiano ha dato ai fascisti la colpa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, allo tesso modo il popolo serbo ne darà la colpa al suo dittatore Milosevic.
Quando questo non è successo nella misura in cui lo si pensava, abbiamo assistito a interpretazioni persino razzistiche – è l’indole del popolo serbo, e così via. Il problema è che la memoria dei bombardamenti ci arriva essenzialmente attraverso memorie politicamente corrette, memorie antifasciste. Ma poi esistono memorie meno rassicuranti: quando parlo con Michele Bolgia, il cui padre è stato ucciso dai nazisti alle Fosse Ardatine e la madre mitragliata per strada dagli alleati al Prenestino, e gli chiedo "tu con chi ce l’hai?", lui risponde "con tutti e due." Penso alla partigiana Lucia Ottobrini, che ricorda l’aiuto che gli alleati le davano ma che ricorda di averli "odiati" quando li vedeva spezzonare i rifugiati e gli sfollati lungo la Prenestina.
Qui la chiave ce la danno, ancora una volta, i racconti falsi. C’è un libro di Cesare Dfe Simone, Venti angeli sopra Roma, che è un libro molto bello e dettagliato sui bombardamenti di Roma, ma che sta interamente dentro la memoria politicamente corretta. C’è un solo scarto, che lui stesso non sa interpretarla: la storia che riporta, senza analizzarla, secondo cui a San Lorenzo si raccontava che un pilota nero americano aveva senza saperlo colpito una scuola, e quando viene a saperlo muore di crepacuore. La storia è poco attendibile – piloti neri di bombardieri erano pochi (anche se ho la "testimonianza" di uno che dalla cima del Gianicolo vedeva passare i bombardieri e vedeva chiaramente che i piloti erano "negri"). Ma che cosa significa il fatto che sia raccontata?
Significa: se gli alleati sapessero veramente quello che hanno fatto, gli spezzerebbe il cuore. Che siano buoni o no, hanno fatto cose da spezzare il cuore. Come c’entra però il pilota nero? La mia lettura, da studioso politicamente corretto di cose afroamericane, è stata: perché il nero è ritenuto più umano. Secondo me purtroppo non significa questo: significa, ahimé, "hanno mandato i selvaggi a bombardarci". E si aggancia all’altra grande narrazione che è quella dei marocchini – una narrazione che è legittima perché sono africani e quindi, anche se stavano dalla parte degli alleati, gli si possono attribuire crimini di guerra, mentre non è possibile attribuire crimini di guerra agli americani e agli inglesi. C’entrano le condizioni politiche del dopoguerra: la sinistra non se la prende con gli alleati anche perché vuole giustamente sottolineare la responsabilità dei fascisti; la DC non lo può fare perché sono i nostri lleati della NATO (presto insabbierà per la stessa ragione anche i processi ai nazisti). Ne viene fuori una straordinaria difficoltà ad articolare il racconto:. Quando itnervistavo sui bombardamenti a Terni, città allora rossa, colpita molto duramente, la gente inveivacontro i fascisti dando loro la colpa dei lutti familiari e delle distruzioni subite; ma quando con aria innocente domandavo chi era che bombardava, le persone cominciavano letteralmente a balbettare. Era lettteralmente una situazioen di afasia.
Lo dico per sottolineare che quando parliamo di memoria divisa– dal mio approccio a quello di Pezzino, a un approccio che li tiene entrambi come quello di Giovanni Contini – parliamo di qualcosa che non è diviso solo fra le persone, fra memoria antifascista e memoria anti-antifascista, ma di una divisione che passa dentro le persone, in questo caso fra le ragioni storiche che danno la colpa a Mussolini e l’esperienza diretta che si ricorda, ma non può dirlo, chi era che premeva il grilletto. Nessuno che non sia interamente ideologico riesce a separare le ragioni di una memoria dalle ragione di un’altra. Così, è fortemente divisa anche la memoria di almeno alcuni dei partigiani di via Rasella: così sono fermamente convinti di avere fatto bene, ma soffrono moltissimo pensando alle persone uccise alle Ardeatine.
Questo è un segno della grande ricchezza di queste fonti, che ci restituiscono sul piano linguistico, sul piano narrativo – proprio su quel piano che la storiografia positivistica vorrebbe togliere di mezzo per andare ai fatti – la dimensione della contraddizione, della sofferenza, della complessità. Di qui un’ulteriore triangolaz<ione: quella fra presente e passato. Cesare Bermani ci ricordava che le itnerviste che facciamo sono documenti del presente, non del passato; del duemila, non del ’44. Ora, io non credo che le fonti "coeve" siano a priori più attendibili: quella che per le fonti orali è una distanza temporale (sono passati cinquant’anni), spesso nelle fonti coeve è una distanza spaziale o sociale (non sono scritte da persone che stavano dentro la piazza di Terni, o che ci stavano in quanto operai).
Un esempio clamoroso è quello di Aurelio Lepre, che scrive un libro su via Rasella basandosi sulle intercettazioni telefoniche fatte subito dopo, e afferma che questo dice la verità sullo stato d’animo dei romani perché si tratta di una fonte coeva. Il fatto che fossero telefonate – cioè che fosse lo stato d0’animo della piccola percentuale di romani che avevano il telefono; che fossero state selezionate per essere messe sul tavolo di Mussolini; che fossero comunque voci di gente che sapeva benissimo che i telefoni erano controllati – tutto questo lo indebolisce moltissimo: non che non siano documenti veri, ma sono documenti che danno solo una rappresentazione mediata di un frammento della città. Tanto è vero che, essendo uno storico e non un linguista, Lepre non si accorge che certi di quei discorsi sembrano rivolti direttamente al censore che sta ascoltando.
Ora, non è che le telefonate di Lepre non siano documenti veri; ma sono documenti che segnano una doppia distanza, fra la collocazione sociale di chi parla e il contesto della resistenza, e fra quello che chi parla ha in mente e quello che sa di dover dire (oltre che fra quello che è stato complessivamente raccolto e quello che è stato presentato a Mussolini). Sono un frammento di verità mediata, non la verità autentica. Allo stesso modo, davanti alle distorsioni, delle omissioni, delle dimenticanze della memoria, dobbiamo sia continuare a servircene per ritrovare il nucleo fattualmente credibile, sia lavorare sulle mediazioni perché è qui che si colloca il rapporto fra gli eventi e il presente per chi parla. Le distorsioni sono sempre costruzioni di significato. In questo senso, alle cose che diceva Bermani aggiungerei un’osservazione del linguista William labov: è linguisticamente impossibile dare una narrazione senza implicare un’interpretazione.
Quindi abbiamo due tempi e la relazione fra loro. Che è successo, e che relazione ha oggi la persona con cui parliamo con quello che è successo. Perciò chi fa storia orale lavora il triplo: non solo perché, come ricordava Polibio tramite Cesare Bermani, deve fare lavoro di gambe, arrampicarsi per strade e campi col registratore in spalla, per trovare le persone, registrare, trascrivere; ma perché lavora su tre piani: deve sapere che è successo, lo d3evi sapere che itnercorsero ventidue ore fra via Rasella e le Fosse Ardeatine e che i tedeschi non ci pensarono nemmeno a mettere bandi invitando i partigiani a consegnarsi; poi devi sapere che gira per l’Italia un racconto egemonico secondo cui invece trascorse un tempo variabile fra i tre giorni e i sei mesi, che i tedeschi riempirono Roma di manifesti e quei vigliacchi di comunisti non si presentarono; e infine devi lavorare sulla relazione fra questi due piani.
Questo poi ci fa capire perché c’è la dimenticanza, perché c’è la selezione. Come spiega Juirj Lotman, non c’è memoria senza dimenticanza: non solo perché la memoria ha dei limiti, ma perché la memoria umana non è come quella del computer dove i dati si ammassano e restano intatti, ma è come l’elaboratore, che i dati li trasforma incessantemente, con un continuo scartare materiali che o non hanno senso o ne hanno troppo per poterne parlare, poi riempire i vuoti (spesso inventando).
In questo senso, farei una nota a margine al termine "invenzione della tradizione".Io trovo il libro di Ranger e Hobsbawm interessantissimo per le storie che racconta, ma un po’ ingenuo nella sua convinzione che in qualche modo possa esistere una tradizione non inventata. La differenza fra le tradizioni di cui si occupano loro e quelle precedenti e semplicemente che poiché queste sono tradizioni che nascono nell’età della stampa e degli archivi noi abbiamo i dati per triangolare fra la tradizione come arriva a noi e il momento della sua formazione. Dove il libro rimane ingenuo è nell’idea che, una volta "sfatata" l’origine, allora hai spiegato tutto; ma la vera domanda è: come mai questa storia inventata è diventata una tradizione? Non tutte le invenzioni lo diventano. Perciò se noi scopriamo che il kilt degli scozzesi è stato inventato da un industriale laniero del ‘700, il lavoro è appena cominciato:perché gli scozzesi se li sono messi? Perché ha inventato dei gonnellini a quadri anziché, diciamo, dei pantaloni a strisce, che avrebbero usato altrettanta lana? La tradizione non è una memoria che si trasmette, ma un’elaborazione che procede; sapere come è stato inventato il kilt è importantissimo, ma non significa che la tradizione non sia autentica -. Cioè, non significa che non sia una tradizione.
Ho visto un ritaglio, che purtroppo non ho conservato, del New York Times in cui si diceva che quando gli antropologi hanno spiegato ai Maori che le storie mitiche sul loro arrivo in Nuova Zelanda erano false, loro hanno risposto dicendo: adesso sono vere. Un popolo la cui cultura è fondata sulla tradizione sa benissimo che cosa è una tradizione, e cioè un insieme di significati e non un insieme di fatti.
L’ultima triangolazione di cui vorrei parlare, brevemente perché ne ha parlato Bermani, è quella fra intervistato e intervistatore. Non avremo mai il medesimo racconto da una stessa persona in due momenti diversi, e tanto meno a due persone diverse. L’intervistatore è in misura non secondaria anche co-autore, e questo pone anche problemi dal punto di vista dei diritti e della privacy. L’intervista è anche un fatto affascinante dal punto di vista teorico, proprio perché mette in discussione l’idea dell’autorialità ottocentesca, di un testo fisso prodotto da un autore unico: qui abbiamo un testo mutevole e prodotto da almeno due persone alla volta (almeno due, perché in molte culture tradizionali, come nel caso di Alce Nero, il narratore è sempre accompagnato da altre persone che verificano o itnegrano il racconto – che poi ci viene presentato sotto forma di libro come se l’avesse fatto una persona sola).
Questo comporta alcune conseguenze. Secondo me non esiste una tecnica dell’intervista. Ogni intervista mira a cose differenti. Si va dal reggimicrofono televisivo che recepisce la dichiarazione dell’onorevole, in cui chiaramente l’intervistato non sta parlando all’intervistatore ma svolge un atto oratorio di massa verso i telespettatori, all’intervista fortemente dialogica, allo scambio interpersonale, al piccolo gruppo di autocoscienza: sono tutte forme legittime, dipendono solo da che cosa si sta cercando di fare, e della necessità di contemperare esigenze differenti. Così, se è bene non mandare sul campo una persona che non sappia niente, è pure bene non mandare una che sappia troppo, perché se l’intervistatore si rende conto che tu sai già le risposte alle domande che gli fai, si rende conto che lo stai, se non prendendo in giro, sicuramente mettendo alla prova; l’intervista sfuma in un interrogatorio o un’interrogazione. Cioè, non sei nella situazione in cui stai imparando dall’intervistato qualcosa che non sai, ma in cui lo stai osservando e, almeno potenzialmente giudicando.
Questa è una distinzione che mi è stata resa molto chiara in Kentucky. Quando ho cominciato a intervistare i minatori in Appalachia, mi sono sentito dire: non andarci, lì ai sociologi gli sparano. Era un’esagerazione – una volta è stato, effettivamente, ucciso un intervistatore televisivo che non rispettava le buone maniere. Comunque è vero che non amano essere "studiati". Ricordo di avere chiesto a una amica, una poetessa che lavora in miera, come mai la gente era così gentile e disponibile con me, lei rispose: perché si vede benissimo che tu di queste cose non ne sai molto, e perciò le persone sono liete di aiutarti. Cioè: ne so abbastanza da capire e contestualizzare quello che mi dicono; ho abbastanza umiltà e pazienza da accettare di non capire subito (la mia personale pratica, che peraltro non propongo affatto come norma da imitare, è di fare prima le interviste e poi guardare eventuali archivi; questo perché quello che a me interessa è l’intervista, e l’incrocio con altre fonti diventa un modo non tanto per verificarla quanto per interpretarla, dando alle fonti scritte la funzione "ancillare" di cui parlava Ragionieri per le fonti orali nella sua storia di Sesto Fiorentino). In ultima analisi, l’idea è che uno non può fare un serio lavoro di intervista se non è animato da un vero desiderio di conoscenza, e non puoi avere un serio desiderio di conoscenza se parti dall’idea che sai tutto in anticipo.
Poi c’è un problema, se non di potere, almeno di status. Quando facemmo una ricerca di storia orale sugli studenti della mia facoltà durante l’occupazione della Pantera, mi accorsi che gli studenti intervistati parlavano spesso più liberamente quando li intervistavo io che non quando lo facevano i loro pari, studenti anch’essi. Ci accorgemmo che il problema era che gli sembrava illogico che i loro pari gli chiedessero che cosa era successo durante l’occupazione, quando c’erano anche loro e avrebbero dovuto saperlo; secondo, più implicito ma percepibile: chi ti dà il diritto di farmi delle domande, di metterti nel ruolo dell’intervistatore? Non c’era fra loro abbastanza differenza, di ruolo e di esperienze; in molte interviste, gli intervistati coglievano l’occasione di quel momento in cui tu dichiari una utopia di differenza, per dirmi veramente le cose che pensavano che, come professore, non potevo sapere e per spiegarmi quelle che non potevo capire. Ovviamente, questo era possibile perché il momento di utopia dell’intervista avveniva dentro un altro momento di utopia, l’occupazione. Si tratta dunque di cercare la soglia in cui la tua conoscenza generale non rende superflue le conoscenze specifiche che ti vengono trasmesse dall’intervistato.
L’altra tecnica elementare credo che siano le buone maniere: ricordarsi sempre che siamo nello spazio e nel tempo degli altri. L’intervistatore ucciso in Kentucky è morto perché era entrato in casa di una persona senza chiedere il permesso – e senza rendersene conto, perché va una definizione culturalmente diversa di che cosa è "casa": lui è entrato nel prato davanti alla casa, che per noi urbani è un terreno di mediazione fra privato e pubblico, ma che lì è già fortemente privato. Bisogna dunque tenere presente che siamo in casa loro, stiamo usando il loro tempo, recependo le loro informazioni – e soprattutto che le buone maniere continuano anche dopo, nel modo in cui li rappresenti. Per esempio: io ho intervistato dei fascisti, ho fatto un libro antifascista, ma mi sono sentito tenuto a farlo in maniera che i fascisti intervistati non si sentissero insultati. Perché mi avevano, comunque, fatto un favore.
Per questo, per un certo periodo io mandavo le trascrizioni. Ora, come sappiamo benissimo dall’aver visto le nostre, le trascrizioni fanno rizzare i capelli alla persona trascritta: ma veramente parlo così? E gli fa venire la voglia di rivederle, correggerle – infine, rovinarle. Allora recentemente ho sviluppato un’altra strategia, insieme più corretta e più strumentale: gli mando la cassetta. Da un lato, la cassetta è meglio, è una cosa che possono tramandare ai nipoti, una traccia della voce e quindi della persona. Dall’altro, è di meno, perché sulla cassetta le persone nono sono portate a intervenire, sia perché ascoltandosi si trovano più naturali e plausibili, sia perché non necessariamente la riascoltano in modo critico. Infine, se pubblico, mando prima l’estratto di quello che pubblico; e in questo caso, accetto (magari negoziandole) le proposte di modifica. Spesso le richieste di modifica derivano da esigenze imprevedibili: come la donna ebrea romana che, parlando della rapina dell’oro del ghetto da parte dei nazisti, commentava "’sti zozzi trucidi" – una bellissima espressione romana, che lei mi ha chiesto di togliere perché suo figlio fa l’ingegnere e se si fosse saputo che sua madre parla così avrebbe perso di status. Io non sono d’accordo col figlio, ma è nel suo diritto. Quindi abbiamo fatto un lungo negoziato per trovare i termini accettabili a tutti e due.
Parlo di negoziato perché infine quello che succede è che si incontrano due persone con due agende, che si incontrano ma non necessariamente coincidono del tutto. Gran parte della ricchezza di questo lavoro sta nel fatto che l’agenda della persona che racconta ti rivela cose che tu non ti aspetti, perché le cose che devi sapere non sono necessariamente quelle che vai chiedendo, e perché tante volte la persona che ti parla non sa che certe cose sono storia, perché hanno un’idea di storia ancora molto tradizionale. Allora, un esempio. Dicevo prima che molte delle cose interessanti cominciano quando l’intervista è finita, cioè quando si chiude la fase formale della narrazione "storica>" e si comincia a parlare del più e del meno. Io tendo a tenere il registratore acceso, e grazie a questo ho ascoltato uno dei racconti più dolorosi e illuminanti di tutta la ricerca sulle Fosse Ardeatine.
E’ stato quando Adas Pignotti, la grande narratrice che fa da filo conduttore al libro, che racconta da tutta la vita, finisce il racconto che si è costruita nel corso degli anni; io finisco le domande che avevo in mente; e si parla in modo informale. Lei mi racconta delle difficoltà che ha con la piccola pensione che riceve, ricorda quanta fatica ha fatto per averla, cose che mi interessano piuttosto poco, finché commenta: e poi, dovunque andavi, negli uffici, nei posti dove lavoravi, pensavano sempre che dovevi stare "a disposizione loro." Le chiedo – in che senso? E lei: nel senso che pensa lei. E si spalanca l’esperienza di queste donne, vedove giovani delle Ardeatine, che oltre ad avere avuto i mariti uccisi in quel modo, si trovano a scontrarsi anche con una cosa che non aveva nemmeno un nome – oggi la chiamiamo molestie sessuali – e che non hanno mai pensato che fosse "storia". Perché era difficile parlarne, era una cosa privata, e poi perché la storia finisce col massacro – e invece l’intervista è importante anche perché tende sempre ad allargare i termini del discorso, comincia sempre prima e finisce sempre dopo.